Le fratture da stress (dette anche fratture da fatica) sono lesioni parziali o meno spesso complete delle ossa dello scheletro. Sono con una certa frequenza riscontrate nell’attività sportiva agonistica od intensa come conseguenza di una incapacità dell’osso di resistere ed adattarsi a sollecitazioni troppo intense e ripetitive.
Normalmente l’osso generalmente riesce a ben adattarsi a un aumento graduale dello sforzo. In alcuni casi, sia per specifica costituzione genetica (minore resistenza strutturale), sia per allenamenti troppo intensi e frequenti, tale adattamento risulta insufficiente o difettoso.
Le fratture da stress possono essere riscontrate anche tra i bambini, infatti normalmente in questi soggetti si riesce con più facilità e velocità ad incrementare la forza muscolare piuttosto che la resistenza dell’osso. Un eccessivo affaticamento dei muscoli durante intensi allenamenti porta ad una diminuzione dell’elasticità e quindi ad una ridotta capacità di assorbire ed ammortizzare le sollecitazioni.
Tali sollecitazioni, se intense e ripetute possono sorpassare le capacità di resistenza ed adattamento dell’osso portando quindi all’insorgenza di vere e proprie fratture dell’osso stesso da carico ripetitivo : le fratture da stress.
Incidenza: Fra le discipline più colpite troviamo la corsa, la ginnastica, il basket e l’aerobica. Nel corridore le regioni più colpite sono la tibia, i metatarsi e lo scafoide tarsale. Secondo uno studio di Sallis e Jones del 1991 le donne sono più colpite (10-20%) rispetto agli uomini (0,9-2%).
Fattori di rischio: Le donne con un indice di massa corporea minore di 21 kg/m sono significativamente più a rischio per fratture da stress tibiali. Gli atleti poco o insufficientemente allenati che si sottopongono ad allenamenti e prestazioni agonistiche eccessive rientrano tra le categorie a maggior rischio.
Anomalie della torsione tibiale o/e della rotazione dell’articolazione dell’anca sembrano essere associate ad un sostanziale aumento delle fratture da fatica.
Un apposito studio ha evidenziato come in un alto numero di sogetti affetti da fascite tibiale (MTTS) in seguito alla comparsa del dolore si assiste alla diminuzione della densità ossea alla giunzione tra terzo medio e terzo distale della tibia a livello dell’inserzione sovraccaricata. L’indebolimento dell’osso segnalato dal dolore può precedere, specie se ignorato, una successiva frattura da fatica. La densità dell’osso ritorna normale dopo la scomparsa del sintomo dolore in seguito al riposo sportivo.
Il piede cavo, la rigidità articolare, i difetti di pronazione e supinazione si associano più frequentemente alle fratture da fatica, a causa di una diminuita capacità di ammortizzamento. Non sembra invece esistere una associazione provata tra la tipologia di ammortizzamento delle calzature e l’incidenza delle fratture da stress.
Sintomatologia: Il dolore viene riferito come persistente e profondo. Spesso l’atleta attende che il dolore sia diventato molto intenso e invalidante prima di rivolgersi allo specialista e riferisce una qualche variazione nella tipologia ed intensità di allenamento, sul tipo di percorso. fondo o sulle calzature. Il dolore da frattura da fatica di solito è presente a riposo ed anche nelle fasi di recupero. Nella fascite tibiale invece non è presente in fase di recupero pur mantenendosi il dolore alla digitopressione della tibia.
In caso di frattura da stress di norma alla palpazione il dolore viene evocato pressando sulla superficie mediale della tibia, di solito in corrispondenza del passaggio tra terzo medio e terzo inferiore dell’osso. Nelle lesioni del metatarso il dolore corrisponde alla sede della lesione.
La diagnosi differenziale va posta con la periostite, la fascite tibiale e con la sindrome del compartimento anteriore. In presenza di una fascite tibiale effettuando lo stretching il più delle volte il dolore aumenta, mentre nella frattura da stress della tibia il dolore pur presente non viene modificato dallo stretching .
La maggior parte delle fratture da stress, a causa della minima entità delle lesione, non viene visionata al normale esame radiografico, perlomeno in fase precoce. La risonanza magnetica e la TC possono dare informazioni più complete e la scintigrafia (solo in casi particolari e selezionati) permette di evidenziare in caso di dubbio diagnostico con molta precisione la sede della lesione.
Trattamento: le fratture da stress, come anche la fascite tibiale possono essere in larga misura prevenute, con una corretta preparazione ed un apposito ciclo di allenamenti pre-gara con un aumento progressivo e costante di frequenza ed intensità dell’esercizio.
La terapia consiste nel riposo attivo (in media da un minimo di 4 alle 12 settimane), da adattare in tempo e modalità a seconda del quadro clinico e delle caratteristiche dell’atleta. Durante tale periodo viene identificato un programma personalizzato mirato a mantenere la funzionalità cardiovascolare, l’elasticità, il tono e trofismo muscolari e l’abilità propriocettiva evitando naturalmente i carichi e gli sforzi capaci di evocare il dolore.
Nella prima settimana di riposo sportivo possono essere consigliati nuoto e cyclette (usando i rapporti più bassi). Nei casi più gravi può essere indicata una specifica chinesiterapia in acqua. In fase avanzata di recupero può essere utilizzato un lavoro specifico con macchina (step) ponendo attenzione all’eventuale manifestarsi del dolore, che deve sempre essere evitato in ogni fase del processo riabilitativo.
Naturalmente va presa anche in considerazione l’adozione di ortesi plantari per correggere gli eventuali squilibri biomeccanici del piede e dell’arto inferiore. La prescrizione delle ortesi va effettuata dopo un attento studio clinico e strumentale, sia statico che dinamico, meglio se dopo un ciclo di stretching (in particolare di gastrocnemio e soleo), massoterapia e mobilizzazione articolare.
Il ritorno all’attività sportiva agonistica deve essere attentamente graduato, sempre rispettando la regola del non dolore, sia quello soggettivo ma anche quello evocato dalla palpazione, ed è consentito solo quando la forza dell’arto interessato abbia raggiunto almeno il 90% rispetto all’arto controlaterale.
Dott. Matteo Pennisi