LA FASCITE PLANTARE

Dott. Matteo Pennisi

 

 

 

Il piede deve necessariamente assorbire e mediare durante la corsa tutta una serie di importanti sollecitazioni funzionali tese alla trasformazione dell’attività muscolo-scheletrica in movimento attraverso lo scarico delle forze al suolo. Le strutture del piede quindi sono l’ultimo anello di una catena cinetica, e quindi molte possono essere le cause e di meccanismi alla base delle patologie da sovraccarico.

La fascite plantare è una delle patologie più comuni che colpisce il corridore abitualmente impegnato nelle lunghe distanza, insieme alla sindrome del dolore femoro-rotuleo, la sindrome da frizione della bendelletta ileo-tibiale, la tendinopatia rotulea, la sindrome da stress tibiale, le lesioni meniscali, la pubalgia.

E’ comunque possibile che si presenti anche nella popolazione cosiddetta normale che non esercita una intensa attività sportiva, spesso in seguito a sovraccarico e/od utilizzo di calzature sprovviste di buon ammortizzamento.

La fascia plantare è costituita dal legamento arcuato o aponeurosi plantare che è una fascia fibrosa che nasce dalla regione inferiore e mediale del calcagno per andare a terminare inserendosi sui legamenti delle dita a livello della regione metatarso-falangea inferiore.

 

 

Durante la corsa al momento della fase del passo in cui il tallone viene sollevato staccandosi dal terreno, l’angolo formato tra l’asse delle dita e quello dei metatarsi si incrementa arrivando ai 50°- 60°, e creando quindi una sollecitazione funzionale sull’aponeurosi plantare.

La fisiologica pronazione o la eventuale iperpronazione del piede comportano l’avverarsi di un contesto biomeccanico in cui la fascia viene ulteriormente stirata.

I ripetuti microtraumi dovuti all’eccessiva trazione possono provocare minuscole lacerazioni sulle inserzioni della fascia plantare o/e del flessore breve delle dita  con comparsa di una infiammazione del periostio (periostite reattiva).

A lungo andare a livello della infiammazione a livello calcaneare si può formare un accumulo di calcio, la cosiddetta “spina calcaneare”, che deve essere però considerata non come la causa della sintomatologia dolorosa, ma come una conseguenza del processo infiammatorio cronico.

Quando l’infiammazione si localizza all’inserzione della fascia a livello del calcagno la sindrome prende il nome di fascite plantare prossimale, mentre quando sono colpite le inserzioni a livello dell’avampiede viene denominata fascite plantare distale.

Il soggetto colpito tende a manifestare all’inizio dell’attività sportiva la sintomatologia dolorosa che spesso regredisce durante l’esercizio, ma che si presenta maggiore al mattino al momento della discesa dal letto ed alla sera dopo prolungata deambulazione od alla ripresa del carico dopo prolungata posizione seduta.

 

 

 

 

La terapia conservativa prevede innanzitutto  una completa analisi della biomeccanica dell’arto inferiore e del passo, per evidenziare eventuali anomalie biomeccaniche o della dinamica funzionale del piede capaci di generare eccessive trasmissioni di forza o concentrazioni di tensioni a livello della fascia plantare, è utile in questi casi una baropodometria dinamica computerizzata. Vanno necessariamente identificati eventuali difetti nelle calzature, anche in relazione ad una eventuale sindrome pronatoria, e deve essere valutata l’usura della suola per evidenziare eventuali vizi di appoggio svelati da consumi anomali.

Il trattamento vero e proprio consiste nel riposo di varia durata ed importanza a seconda della gravità della patologia, l’applicazione di ghiaccio in fase acuta.

Nei casi meno gravi si può ridurre il carico di allenamento o indirizzare momentaneamente il soggetto verso sport a minore impatto biomeccanico come il nuoto o la bicicletta.

Possono essere associati una  eventuale terapia antinfiammatoria con farmaci non steroidei  per via generale o locale, lo stretching della catena cinetica posteriore, del tricipite e della fascia plantare, la massoterapia ed il massaggio trasversale profondo. Possono essere utilizzate inoltre le terapie fisiche strumentali più classiche (onde d’urto, Tecar, crioterapia, etc.),  ma spesso questi presidi non riescono a  controllare a lungo la sintomatologia od a spegnerla definitivamente.

La terapia causale vera e propria consiste nella rimozione e correzione delle eventuali cause del sovraccarico funzionale che se persistente contribuisce alla eventuale cronicizzazione del problema.

 

 

La normalizzazione dello scarico plantare avviene attraverso l’utilizzo di specifiche ortesi plantari, le migliori delle quali prevedono una preventiva analisi della dinamica del passo ed una successiva realizzazione  dopo la presa dell’impronta, (preferibilmente nella mia esperienza con calco in gesso della volta del piede) del plantare con le opportune correzioni; dal calco in gesso negativo si ottiene il positivo della forma del piede, sul quale viene costruito ed adattato il plantare specifico, personalizzato per il singolo soggetto ed il singolo piede; dopo 10-15 giorni di utilizzo si ricontrolla l’adattamento del plantare e si apportano le eventuali ulteriori modifiche evidenziate dalla “lettura” dei segni dei carichi sul plantare stesso.

Spesse volte è possibile che per la guarigione clinica siano necessari periodi molto lunghi, anche fino ai  sei mesi o più, e bisogna prestare molta attenzione al possibile ripresentarsi di eventuali recidive, per cui le cautele vanno proseguite nel tempo per prevenire le eventuali ricadute, essendo spesso la fascite plantare una patologia con tendenza alla cronicizzazione.

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